Se in trent’anni di attività non avessi trascinato decine di persone nei posti più assurdi della terra, la mia presenza al Faraone questo fine settimana sarebbe monumento all’opportunismo speleologico.
La scusa per dribblare le tante uscite di disostruzione distribuite in ben 8 anni è sempre stata la necessità che i gnari costruissero un cantiere loro. Condizione obbligatoria perché il seme della perseveranza dia il frutto della follia.
E folli, lucidamente folli, lo sono stati davvero Mauri e Frizzi scavando 40 metri di budello. Dopo un epico campo di 5 giorni in due nel 2004, pian piano sono riusciti a traviare tanti avventurieri del GGB. Ovviamente tutte vittime inconsapevoli del loro progetto criminale per cui hanno scontato una pena di 8 anni a-130. Soprattutto a 300 chilometri da casa e a 2 ore dall’utilitaria devastata piantata sulla marmifera…
Ciò che ho visto e percorso laggiù merita davvero di entrare negli annali della speleologia. Al pari di storiche giunzioni, menomille vari e chilometriche arrampicate.
Mentre litigo con un sacco capriccioso la claustrofobica sezione è racchiusa da un centinaio di mezzi fori lunghi 40 cm. Non so se sono i due mesi di antibiotici dopo l’encefalite virale raccattata in Filippine ad Aprile, ma se non fosse per il vento sarei in affanno. Ma come hanno fatto a scavare a testa in giù, continuo a ripetere bestemmiando.
Ancora una strettoia in spaccata su un pozzetto da 3 metri: fa paura pensare che qui la punta scorsa si è rischiato l’abbandono. La rinuncia esausta ad ulteriori lavori se non fosse stata la curiosità, femminile quanto assurda, della Roby ad ascoltare il vuoto di un’eco al di là di due dita di fessura. Era la voce del buio, dei marmi che finalmente si spalancano.
Mauri è partito, Frizzi lo segue: terrazzo a -15; poi altra cengia e si sporge su un cannocchiale di due bocche ovali. E’ necessario un rapido brain storming, danzando con le longe il ballo di pietre; secondi di riflessione e provvidenziali fasci di Scurion che lancio laggiù in qualità di assistente spirituale.
E allora traverso sia! Mauri riparte e dopo due frazionamenti è già nel rammarico di un saccone con una sola corda da 150 m che termina a 25 m dal fondo.
Raggiungo Frizzi. I nostri due spezzoni calati non evitano a quel puntino laggiù, perso in un cilindro di 20 metri di diametro, di risalire.
Alla base il vuoto di un salone: una china infida poi ancora un pozzo. Una quarantina, franoso, maledettamente franoso; ma Frizzi lo ramazza come una brava massaia. Alla base ancora una volta il sorriso amaro della corda finita su di un ulteriore orlo, con il vento che ci spettina per fuggire oltre la grande finestra.
Stavolta siamo in sei a -350, dopo aver steso 250 metri di corda in una unica punta e sceso uno dei pozzoni più belli delle Apuane. Non ci resta che rilevare gustando poi il tepore dei Massesi.
Una notte stellata, la brezza e sei barboni appollaiati tra i karren. Inebriati, storditi o lucidamente folli: sì, ora possamo anche sognare di essere all’inizio di un una di quelle avventure bresciane che da queste parti hanno graffiato il marmo per sempre. Brai Gnari!
Matteo “Pota” Rivadossi